Le vittime sono diminuite. E le donne sono sempre più consapevoli dell’importanza della diagnosi precoce. Ma la mammografia è davvero l’arma più efficace nella battaglia contro il cancro al seno? La denuncia dei rischi legati all’eccesso di prevenzione in un articolo che ha fatto discutere l’America.

Un tempo credevo che una mammografia mi avrebbe salvato la vita. L’ho perfino scritto sulle pagine di questa rivista. Era il 1996, avevo appena compiuto 35 anni e il mio medico mi mandò a fare il primo screening. Sarebbe servito come riferimento quando, a quarant’anni, avrei cominciato a sottopormi a una mammografia ogni anno. Nella mia famiglia non c’erano precedenti di tumori al seno e non c’erano particolari fattori di rischio. Perciò quando il radiologo trovò sulla lastra uno strano segno simile ai raggi di una bicicletta (non era neanche un nodulo) e mi mandò a fare una biopsia, non mi preoccupai. Dopotutto, chi aveva un tumore al seno a 35 anni? Proprio io.

Ricordare la paura, la confusione, la rabbia e il dolore di quel momento mi fa ancora sofrire. La mia unica consolazione era che il sistema aveva funzionato: la mammografia aveva rilevato il tumore in tempo, ero stata sottoposta a una nodulectomia e a sei settimane di radioterapia. Sarei sopravvissuta. Per coincidenza, una settimana dopo che la malattia mi era stata diagnosticata una commissione di esperti dei National institutes of health era finita sulle prime pagine dei giornali perché si era rifiutata di raccomandare lo screening mammografico per tutte le donne dai quaranta ai cinquant’anni. Non c’erano prove a sostegno del fatto che la mammografia riducesse il numero di persone che morivamo di cancro in quella fascia di età. Inoltre, dato che i tessuti del loro seno erano più compatti, le donne più giovani rischiavano di ottenere falsi risultati positivi – e quindi una serie di biopsie e preoccupazioni inutili – ma anche falsi risultati negativi.

Quelle conclusioni mi colpirono come un pugno in faccia. “Uficialmente la mia vita non vale la pena di essere salvata”, scrissi arrabbiata. Quando l’American cancer society e la Susan G. Komen foundation respinsero le conclusioni della commissione, dicendo che la mammografia era ancora lo strumento migliore per ridurre la mortalità per tumore alla mammella, i miei amici si congratularono con me come se avessi ottenuto una vittoria personale. Mi consideravo un perfetto esempio dei vantaggi della diagnosi precoce. Ma a sedici anni di distanza, ho cambiato idea.

Anno dopo anno, mentre nuovi studi rivelavano i limiti dello screening e i pericoli di interventi sproporzionati, un pensiero mi assillava: le cose sarebbero andate diversamente senza quella mammografia? Cosa sarebbe cambiato se avessi scoperto la malattia qualche anno dopo? È dificile contestare un buon risultato. Dopotutto, sono viva e grata di essere ancora qui. Ma ho visto amiche morire anche se il loro tumore era stato scoperto “tempestivamente”. E persone con cui ho condiviso l’angoscia di quelli che poi fortunatamente si sono rivelati falsi allarmi. Qualche tempo fa, da uno studio su trent’anni di screening pubblicato sul New England Journal of Medicine è emerso che l’uso della mammografia produce risultati ambigui: da una parte riduce di una piccola percentuale il numero di donne che scoprono di avere un tumore in stadio avanzato, dall’altra è molto più probabile che provochi diagnosi allarmistiche e interventi inutili – anche chirurgici -, settimane di radioterapia e prescrizione di farmaci tossici.

Eppure negli Stati Uniti la mammografia resta il pilastro indiscusso delle campagne di prevenzione. Dovunque vada – al supermercato, in tintoria, in palestra, dal benzinaio, al cinema, all’aeroporto, dal fioraio, in banca, al centro commerciale – vedo manifesti che dichiarano che “la diagnosi precoce è la migliore protezione” e “una mammografia ti salva la vita”. Ma quante vite “salva” veramente, in che modo e a che prezzo? Parlare pubblicamente di tumore alla mammella, una malattia alla quale un tempo si accennava solo sottovoce, all’inizio è stato importante quanto sottolineare i vantaggi della prevenzione. Ma questa sempre maggiore “consapevolezza” ha avuto delle conseguenze impreviste, e anche quelle conseguenze inluiscono sulla salute delle donne.

Il tumore della mammella in sé non uccide, diventa letale quando metastatizza e si difonde ad altri organi o alle ossa. La diagnosi precoce si basa sulla teoria, che risale alla fine dell’ottocento, secondo la quale la malattia progredisce regolarmente, partendo da una singola cellula, difondendosi in modo esponenziale e, a un certo punto, facendo immancabilmente un balzo in avanti. Per curarla, quindi, si pensava di dover individuare ed eliminare il tumore prima che cominciasse la metastasi. Ma non era dimostrato che le dimensioni di un tumore permettessero di capire se si era difuso.

Secondo Robert Aronowitz, un professore di storia e sociologia della scienza dell’università della Pennsylvania e autore di Unnatural history: breast cancer and american society, i medici avevano appoggiato comunque questa idea, anche perché volevano disperatamente crederci e “fare qualcosa” per fermare quella piaga contro la quale si sentivano impotenti. Così, nel 1913, un gruppo di loro fondò un’organizzazione (che in seguito sarebbe diventata l’American cancer society) e si cominciò a dire alle donne, con una campagna che precorreva quelle di oggi per la mammografia, che era possibile sopravvivere al cancro. Alla fine degli anni trenta avevano mobilitato un “esercito” di più di centomila volontarie in abiti color cachi che andavano di porta in porta a raccogliere fondi per “la causa” e consigliavano alle vicine di rivolgersi immediatamente a un medico se notavano “sintomi sospetti” come noduli o sanguinamenti irregolari. Un rito quasi sacro La campagna funzionò, più o meno. Più donne andarono dal dottore. Furono diagnosticati più tumori, efettuati più interventi e più pazienti sopravvissero al trattamento iniziale.
Ma il tasso di mortalità non cambiò molto.

Tutte quelle diagnosi tempestive non si traducevano in “vite salvate”. Avrebbe dovuto essere il segnale che nella teoria qualcosa non funzionava. I chirurghi invece erano convinti che la cosa importante era scoprire la malattia il prima possibile. La mammografia prometteva di fare esattamente questo. Dai primi studi, avviati nel 1963, risultò che sottoponendo all’esame le donne sane si poteva ridurre il tasso di mortalità per carcinoma mammario di circa il 25 per cento. Anche se questa diminuzione riguardava essenzialmente le donne che avevano superato i cinquant’anni, sembrava logico che usando la mammografia su donne più giovani, e quindi individuando prima il tumore, si sarebbero ottenuti risultati migliori. Si sarebbe potuto addirittura curare il cancro. Tuttavia, per realizzare questo miracolo le donne dovevano sottoporsi alla mammografia ogni anno e, all’inizio degli anni ottanta, si calcolava che lo faceva meno del 20 per cento di quelle che avrebbero dovuto.
Così nel 1982 Nancy Brinker istituì la fondazione Komen. Brinker era convinta che una diagnosi precoce e una maggiore informazione avrebbero potuto salvare sua sorella Susan, che era morta di cancro alla mammella a 36 anni. Tre anni dopo fu istituito il National breast cancer month, il mese della prevenzione. Le “soldate” in cachi degli anni trenta furono sostituite da milioni di persone vestite di rosa che partecipavano alla Race for the cure e da tutta una serie di prodotti “rosa”: confezioni di pollo, yogurt, aspirapolvere, guinzagli per cani.

Il messaggio restava essenzialmente lo stesso: il cancro al seno era un brutto colpo del destino, ma con la diagnosi precoce era possibile sconfiggerlo. All’inizio degli anni duemila, circa il 70 per cento delle donne sopra i quarant’anni si sottoponeva a un controllo annuale. La mammografia era diventata un rito quasi sacro, così importante che nel 2009, quando un altro gruppo di studiosi indipendenti finanziati dal governo statunitense afermò di nuovo che il controllo doveva essere fatto ogni due anni a partire dai cinquanta, la reazione non fu di sollievo ma di rabbia.
Dopo anni di bombardamento e di compagne sulla diagnosi precoce, le donne pensavano che la mammografia non servisse solo a scoprire il tumore ma addirittura a prevenirlo. Il congresso statunitense stava discutendo la riforma sanitaria. Invece di cercare di capire come sfruttare al massimo i vantaggi dello screening e al tempo stesso limitarne i danni, i repubblicani accusarono la commissione di voler razionare l’assistenza sanitaria e l’amministrazione Obama fu accusata di indiferenza nei confronti delle donne statunitensi. Così la ministra della sanità, Kathleen Sebelius, fece marcia indietro, dichiarando che la politica dell’amministrazione sullo screening “sarebbe rimasta invariata”.

Mentre le donne statunitensi si sottoponevano in massa alla mammografia, la visione che avevano i ricercatori del carcinoma mammario e della diagnosi precoce stava cambiando. Ormai è chiaro che la malattia non si comporta sempre nello stesso modo. Non è neanche un’unica malattia. Esistono almeno quattro tipi di tumori alla mammella geneticamente distinti. Hanno cause diverse e reagiscono in modo diverso al trattamento. Due sottotipi correlati, il luminal A e il luminal B, sono tumori alimentati dagli estrogeni. Possono rispondere a una cura di cinque anni a base di compresse di tamossifene o inibitori dell’aromatasi, che bloccano l’accesso della cellula a quegli ormoni e ne riducono il livello.

Il terzo tipo di cancro, chiamato Her2 positivo, produce dosi eccessive di una proteina chiamata recettore del fattore di crescita dell’epidermide 2 e può essere curato con un’immunoterapia mirata a base di Herceptin. L’ultimo tipo è quello basaloide o basal-like (spesso definito “triplo negativo” perché la sua proliferazione non è alimentata dai biomarcatori più comuni per il carcinoma mammario: l’estrogeno, il progesterone e l’Her2), è il più aggressivo e colpisce nel 20 per cento dei casi. Più difuso tra le giovani e le afroamericane, è geneticamente più vicino al cancro ovarico. All’interno di questa classificazione esistono indubbiamente ulteriori distinzioni, altri sottotipi il cui studio un giorno potrebbe dare origine a una gamma più ampia di farmaci in grado di isolare specifiche caratteristiche e consentire trattamenti più eficaci. Ma per questo ci vorranno ancora molti anni. I primi studi sulla mammografia furono condotti prima che si conoscessero queste varianti, prima dell’Herceptin, della terapia ormonale e perfino prima dell’uso diffuso della chemioterapia. I progressi fatti nelle cure hanno annullato alcuni dei vantaggi dello screening, anche se non è ancora chiaro in che misura. Dal 1990 si è verificato un calo del 25 per cento dei casi di morte per carcinoma mammario, e alcuni ricercatori sostengono che questo sia dovuto soprattutto ai trattamenti, e non alla mammografia. Per dimostrarlo citano uno studio condotto su due coppie di paesi europei con servizi sanitari e livelli di rischio simili.
In ognuna di queste coppie, uno dei due paesi ha introdotto la mammografia 10 o 15 anni prima dell’altro. Eppure il tasso di mortalità è praticamente identico. Sembra che la mammografia non abbia inciso sui risultati.

Negli Stati Uniti, alcuni ricercatori attribuiscono allo screening il merito di aver ridotto il tasso di mortalità del 15 per cento, che però rimane invariato anche quando il controllo viene fatto ogni due anni. I conti non tornano Gilbert Welch insegna medicina al Dartmouth institute for health policy and clinical practice e ha condotto uno studio sul H trattamento eccessivo come conseguenza dello screening, pubblicato a novembre del 2012 sul New England Journal of Medicine. Secondo i suoi calcoli, la quota di donne che ha tratto effettivamente un beneficio dall’aver scoperto il cancro grazie alla mammografia varia dal 3 al 13 per cento. Se Welch ha ragione, ogni anno il test salva dalle quattromila alle 18mila donne. Un numero significativo, soprattutto se siete una di loro.
Ma è meno significativo di quanto ci si potrebbe aspettare rispetto alle 138mila donne alle quali il cancro viene diagnosticato ogni anno con la mammografia. Perché la diagnosi precoce non funziona in più casi? Sembra che la mammografia non sia lo strumento migliore per scoprire le forme più letali di tumore, come il triplo negativo, in una fase ancora curabile. Anche se il tumore viene individuato abbastanza presto, quando è ancora piccolo, spesso è comunque troppo tardi perché ha già metastatizzato. Questo forse spiega perché non c’è stato un calo dell’incidenza di tumori metastatici da quando è stato introdotto lo screening. D’altra parte, la mammografia individua subito quei tumori che potrebbero essere curabili anche se scoperti più tardi dalla donna o dal suo medico, e quelli che progrediscono così lentamente da non arrivare mai a metastatizzare. Per quanto possa sembrare improbabile, molti studi fanno pensare che circa un quarto dei tumori individuati con la mammografia sparisca da solo. Quindi, se una donna sopra i cinquant’anni si sottopone a questo esame ogni anno può scoprire di avere un carcinoma mammario, ma il rischio che muoia nell’arco dei dieci anni successivi si riduce solo dello 0,7 per cento, passando dallo 0,53 allo 0,46. Per le donne tra i quaranta e i cinquant’anni questa riduzione è ancora minore, dallo 0,35 allo 0,3 per cento. Se i vantaggi dello screening sono stati sopravvalutati, dei suoi potenziali danni si parla molto poco.

Secondo un’indagine sui test clinici randomizzati che hanno coinvolto 600mila donne in tutto il mondo, ogni duemila donne sottoposte allo screening annuale per dieci anni si riesce a prolungare una vita, ma a dieci donne saneviene diagnosticato un cancro alla mammella, spesso trattato inutilmente con terapie che presentanopericolosi efetti collaterali (il tamossifene, per esempio, comporta un piccolo rischio di ictus, emboli e cancro all’utero; la radioterapia e la chemioterapia indeboliscono il cuore; e anche la chirurgia, ovviamente, ha i suoi rischi). A molte di queste donne viene detto che si tratta del cosiddetto carcinoma duttale in situ (Dcis), o cancro allo “stadio zero”, in cui le cellule anomale si trovano nei dotti lattiferi. Prima della difusione dello screening, il Dcis era molto raro.
Oggi, insieme al meno comune carcinoma lobulare in situ, è responsabile di un quarto dei nuovi casi di tumore alla mammella, circa 60mila all’anno. I tumori in situ sono più difusi tra le donne tra i quaranta e i cinquant’anni. Secondo le stime dei National institutes of health, entro il 2020 a più di un milione di donne statunitensi sarà diagnosticato il Dcis. Durante gli eventi organizzati per sensibilizzare l’opinione pubblica, le donne che sopravvivono al Dcis sono indicate come prova del trionfo della diagnosi precoce: la loro era una malattia facilmente curabile e il trattamento garantisce quasi il 100 per cento di sopravvivenza per almeno dieci anni. Il fatto è che, nella maggior parte dei casi (dal 50 all’80 per cento secondo le stime), il Dcis rimane esattamente dov’è, “in situ”, cioè al suo posto.

Se non diventa un cancro invasivo, non ha la capacità di diffondersi oltre il seno, quindi non è letale. Le autopsie hanno dimostrato che il 14 per cento delle donne morte per cause diverse dal carcinoma mammario avevano il Dcis senza saperlo. Non esiste ancora un sistema sicuro per capire quale Dcis diventerà un tumore invasivo, perciò ogni caso viene trattato come potenzialmente letale. Secondo Laura Esserman, direttrice del Carol Franc Buk care center dell’università della California a San Francisco, questo sistema deve cambiare. Esserman sta conducendo una campagna per cambiare nome al Dcis, rimuovendo la C, nel tentativo di ridimensionare i timori delle donne. “Il Dcis non è un cancro, è un fattore di rischio”, spiega. “Per molte lesioni di questo tipo, le probabilità di diventare invasive nell’arco di dieci anni sono solo del 5 per cento. È il rischio medio che corre qualsiasi donna di 62 anni. Non ricorriamo alla cardiochirurgia appena una persona mostra di avere un alto livello di colesterolo. Perché con loro lo facciamo?”. Nel Regno Unito, dove le donne sono sottoposte allo screening ogni tre anni a partire dai cinquanta, recentemente le autorità hanno deciso di rivedere gli opuscoli sulla mammografia inserendo riferimenti più ampi al dibattito sulla sovradiagnosi. Forse questo non cambierà l’atteggiamento delle persone nei confronti della mammografia, ma almeno spiega meglio quali sono i possibili aspetti negativi. Nessuna garanzia Negli Stati Uniti, l’enorme aumento delle diagnosi di Dcis trasforma ogni anno circa 50mila donne sane in “sopravvissute al cancro” e contribuisce ad aumentare la sensazione che il carcinoma mammario sia difusissimo, che capiti a tutte. Questo, a sua volta, alimenta l’ansia delle donne per la loro personale vulnerabilità, facendo aumentare la richiesta di esami, che inevitabilmente produce ulteriori diagnosi di Dcis. Tutte le pazienti a cui è diagnosticato subiscono le soferenze, le mutilazioni, gli effetti collaterali e i traumi psicologici di chiunque abbia un cancro, e forse penseranno di non poter mai più essere persone completamente sane. Ma chi di loro ha il coraggio di comportarsi in modo diverso? Chi vorrebbe aver evitato quella mammografia? Come mi ha detto lo storico Robert Aronowitz: “Quando incoraggiamo la paura del cancro e decantiamo l’efficacia dei nostri metodi di prevenzione e di trattamento, perfino le persone danneggiate dal sistema lo difendono, dicendo: ‘È l’unico rituale che abbiamo, l’unica cosa che possiamo fare per evitare il cancro’”.

E se anch’io avessi saltato quella prima mammografia e avessi scoperto il mio tumore qualche anno dopo sotto la doccia? Forse a quel punto avrei avuto bisogno della chemioterapia, un’esperienza che sono profondamente grata di aver potuto evitare. Sarei sopravvissuta? Probabilmente sì, ma non ne sarò mai sicura, nessuna donna può esserlo. In un modo o nell’altro, le probabilità sono state a mio favore: la mia fortuna è stata che la malattia non solo è stata scoperta in tempo, ma che sembrava anche curabile. Sottolineo la parola “sembrava”: una delle caratteristiche più sgradevoli del tumore al seno è che anche quando è di grado più basso ed è stato preso in tempo può tornare a distanza di anni, perfino decenni, dopo il trattamento. Come è successo a me. L’estate scorsa, nove mesi dopo la mia ultima mammografia, mentre mi preparavo per andare a letto e chiacchieravo con mio marito, le mie dita hanno sentito qualcosa di piccolo ma duro sotto la cicatrice del seno sinistro. In quel momento ho superato di nuovo la barriera invisibile che divide chi è sano da chi è malato. Questo secondo tumore era piccolo come il primo ed era improbabile che si fosse difuso. Ovviamente, però, doveva essere tolto. Dato che la nodulectomia richiede una successiva radioterapia, e non si può sottoporre a radiazioni la stessa parte del corpo due volte, nel mio caso l’unica cosa da fare era la mastectomia.
Mi hanno anche prescritto il tamossifene per ridurre il rischio di metastasi dal 20 al 12 per cento. Ancora una volta, questo significa che dovrei sopravvivere, ma non ne ho nessuna garanzia. Non saprò mai per certo se sono guarita fino a quando non morirò di qualcos’altro, si spera tra qualche decennio, nel sonno e stringendo la mano di mio marito, dopo una bella cena con i nostri nipoti. Il mio primo istinto è stato quello di farmi asportare anche l’altro seno, non volevo vivere quell’esperienza un’altra volta. Ma l’oncologo non era d’accordo.

Il tamossifene avrebbe abbassato il rischio di recidiva a quello di qualsiasi donna. Una donna normale si sarebbe fatta togliere le mammelle? Se avessi deciso per l’intervento preventivo lo avrei fatto per motivi psicologici, non medici. Mentre la data si avvicinava, ho valutato le due possibilità. Il rischio medio, dopotutto, non era zero. Sarei riuscita a vivere con quel pensiero? Una parte di me voleva ancora eliminare qualsiasi pericolo. Ho una figlia di nove anni e farei qualsiasi cosa, devo fare qualsiasi cosa, per evitare di morire. Ma se il problema era la morte, il pericolo maggiore non era l’altro seno. Era che, nonostante il trattamento e la prognosi incoraggiante, il cancro avesse già metastatizzato. La mastectomia preventiva non avrebbe cambiato le cose e non avrebbe escluso del tutto la possibilità di una recidiva, perché resta sempre una parte di tessuto. E poi cosa significava fare “qualsiasi cosa”? Certi giorni non metto la protezione solare. Non faccio esercizio fisico quanto dovrei. Non ho rinunciato ai formaggi stagionati anche se ho il colesterolo alto. Non assumo abbastanza calcio. E la mia casa è a sei isolati da una linea di faglia. Vivere con una certa percentuale di rischio di carcinoma mammario farebbe tanta diferenza? Ho deciso di seguire il consiglio del mio medico e di fare solo l’indispensabile. Credevo che il mio fosse un dilemma insolito, dovuto all’ansia di essermi trovata troppo spesso dal lato sbagliato delle statistiche.

Ma ho scoperto che migliaia di donne prendono in considerazione la doppia mastectomia anche dopo una diagnosi di tumore a basso grado di malignità. Secondo Todd Tuttle, che dirige l’istituto di oncologia chirurgica dell’università del Minnesota ed è uno dei principali autori di uno studio sulla mastectomia profilattica pubblicato sul Journal of Clinical Oncology, dal 1998 al 2005, tra le donne alle quali è stato diagnosticato un secondo Dcis a una mammella c’è stato un aumento del 188 per cento di quelle che hanno scelto di farsele asportare entrambe. Tra le donne colpite da un tumore invasivo allo stadio iniziale (come il mio), il tasso è aumentato del 150 per cento.
La maggior parte non aveva una predisposizione genetica al cancro. Tuttle pensa che la loro decisione non si sia basata sulle indicazioni di un medico ma sulla paura esagerata del rischio di sviluppare un tumore all’altro seno. Secondo lo studio, quelle donne erano convinte che nell’arco di dieci anni il rischio fosse del 10 per cento, mentre in realtà era più vicino al 5 per cento. Fino a non molto tempo fa, le donne lottavano per mantenere le loro mammelle anche dopo una diagnosi di cancro, insistendo con i chirurghi perché ricorressero a una nodulectomia seguita da radioterapia piuttosto che intervenire in modo più radicale.

Perché la situazione è cambiata? Ho rilettuto su questo mentre leggevo “Storie di speranza” sul sito web dell’American cancer society. Ho trovato l’immagine di una bella donna che indossava una maglietta rosa, sorrideva e teneva in mano un piccolo dolce coperto di glassa sul quale era piantata una candelina rosa. Raccontava che aveva cominciato a sottoporsi allo scree ning intorno ai 35 anni perché aveva un seno fibrocistico. A 41 anni le era stato diagnosticato un Dcis, che era stato trattato con la nodulectomia e la radioterapia. “Mi sentivo fortunata perché l’avevo scoperto per tempo”, diceva. Ma l’esperienza era stata devastante. Aveva continuato a sottoporsi alle mammografie e a una serie di operazioni per rimuovere cisti benigne. Poi aveva scoperto di avere di nuovo un tumore al seno, e di dover afrontare il quinto intervento.

Così aveva deciso di farsi asportare entrambe le mammelle. La considerava una decisione logica. Vittime e sopravvissute Mi sono ritrovata a pensare a un modo alternativo per descrivere quello che era successo. La mastopatia fibrocistica non anticipa il cancro, anche se non è facile distinguere tra tumori benigni e maligni e questo fa aumentare la probabilità di biopsie inutili. Cominciando i controlli poco dopo i trent’anni, quella donna era stata esposta ad anni di radioterapie inutili, una delle poche cause note di tumore al seno. Il Dcis, rilevato quasi esclusivamente grazie alla mammografia, molto probabilmente non avrebbe mai messo in pericolo la sua vita, ma l’aveva trasformata in una sopravvissuta al cancro costretta a sottoporsi a interventi chirurgici e ad altre settimane di radioterapia. Al momento della seconda diagnosi, era così angosciata che si era fatta amputare entrambe le mammelle per riacquistare un senso di controllo. Quella donna dev’essere considerata una sopravvissuta? O il suo caso dovrebbe mettere in guardia? Sapere l’ha aiutata o ne ha fatto una vittima? La paura del cancro è legittima, ma mi sono resa conto che le nostre reazioni e le nostre emozioni a volte possono essere manipolate, impacchettate e vendute dalle stesse persone che sostengono di volerci aiutare. Questo può inluire su tutto, dall’importanza che attribuiamo ai controlli alla comprensione del rischio che corriamo, alla scelta dei trattamenti. “Si potrebbe attribuire l’aumento delle mastectomie a una maggiore conoscenza della genetica o alle nuove e migliori tecniche di ricostruzione”, dice Tuttle. “Ma tutto questo esiste anche in Europa, e lì non c’è la stessa frenesia di intervenire. Negli Stati Uniti c’è una sensibilizzazione eccessiva al problema del tumore mammario. Se ne parla dappertutto. Ci sono perfino i camion della nettezza urbana rosa. Le donne sono terrorizzate”. “Ogni anno muoiono di carcinoma mammario circa 40mila donne e 400 uomini”, dice Lynn Erdman, vicepresidente della sezione sanità comunitaria della Komen. “Finché quel numero non scenderà, per noi non ci sono abbastanza nastri rosa in giro”. Ma invece di afermare senza ombra di dubbio che “una mammografia salva la vita”, gli attivisti potrebbero usare uno slogan diverso. Il ricercatore Gilbert Welch suggerisce: “La mammografia presenta vantaggi e svantaggi, per questo è una decisione personale”. È lo stesso messaggio lanciato dalla commissione del 2009, che poi ha dovuto cedere alle ragioni della politica: è scientificamente dimostrato che tra i 50 e i 74 anni è bene fare una mammografia ogni due anni, chi non rientra in questa fascia di età e vuole comunque sottoporsi a un controllo dovrebbe essere messo al corrente degli aspetti negativi. Ormai le donne
sono consapevoli del rischio di tumore alla mammella. Cosa bisogna fare a questo punto? Per sradicare la malattia, o almeno ridurne considerevolmente l’incidenza e le conseguenze devastanti, forse non serve raccogliere più fondi, ma impiegarli meglio. Come? Scienziati e attivisti danno risposte diverse. Molti denunciano la scarsità di risorse per la prevenzione. A febbraio, per esempio, una commissione del congresso statunitense formata da attivisti, scienziati e funzionari governativi ha chiesto un aumento dei fondi per lo studio dei rapporti tra ambiente e tumori alla mammella. Ne hanno dato una definizione molto ampia, che va dal consumo di alcol alle disuguaglianze sociali, all’esposizione a sostanze chimiche e radiazioni. Altri ricercatori si sono entusiasmati all’idea di poter combattere il cancro cambiando il “microambiente” del seno, il tessuto che circonda il tumore e che può stimolarne o fermarne la crescita. Susan Love lo ha paragonato al fatto che crescere in un quartiere più o meno buono può inluire sulla vita di un ragazzo facendolo o meno diventare un delinquente. “Può anche darsi che modificando ‘l’ambiente’, che sia il sistema immunitario o il tessuto locale, si possano controllare o uccidere le cellule cancerose”. La terapia ormonale sostitutiva durante la menopausa, che come è stato scoperto contribuisce a far aumentare la percentuale di carcinomi mammari, potrebbe essere stato l’equivalente biologico di permettere agli spacciatori di metadone di impadronirsi di un angolo di strada. D’altra parte, un vaccino, come oggi sostengono alcuni scienziati e attivisti, sarebbe come mettere lì una pattuglia della polizia. Quasi tutti concordano nel dire che c’è ancora molto da fare a tutti i livelli della ricerca diagnostica, per distinguere quali lesioni da Dcis progrediranno fino a diventare invasive, ma anche per capire meglio i meccanismi della metastasi. Secondo un’analisi della rivista Fortune, dal 1972 a oggi solo il 5 per cento circa dei finanziamenti del National cancer institute sono stati impiegati per studiare il processo di metastasi. Su 2,2 miliardi di dollari raccolti negli ultimi sei anni, per questo tipo di ricerca la Komen ha usato 79 milioni, che sono senza dubbio un bel po’ di soldi ma solo il 3,6 per cento del budget che aveva a disposizione in quel periodo. “Molte persone sono convinte che lavorare sulla metastasi sia una perdita di tempo”, dice Danny Welch, che presiede il dipartimento di biologia tumorale del Cancer center dell’università del Kansas, “perché prima di tutto dobbiamo prevenire il cancro. Il problema è che ancora non sappiamo cosa lo provoca”.

I progressi scientifici sono discontinui e imprevedibili. “Brancoliamo nel buio”, dice Peter B. Bach, che dirige il Center for health policy and outcomes del Memorial Sloan-Kettering cancer center. “L’unica cosa che posso dire è che quel brancolare sta cominciando a dare qualche frutto”. Esistono terapie, aggiunge, come quella con il tamossifene e l’Herceptin, che prendono di mira alcune specifiche caratteristiche dei tumori, e nuovi test che permettono di calcolare le probabilità di recidiva dei tipi di cancro positivi agli estrogeni e di evitare la chemioterapia alle donne a più basso rischio. “Questo non significa curare il cancro”, dice Bach, “ma è un passo avanti”. L’idea che ci possa essere un’unica soluzione – lo screening, la diagnosi precoce, una qualche cura universale – è allettante. Tutti vorrebbero che fosse così.
Indossare un braccialetto, appuntarsi un nastrino, partecipare a una corsa o comprare un frullatore rosa è un modo per esprimere la nostra speranza. Ci fa sentire bene, perfino virtuosi. Ma cambiare le cose è molto più complicato. Sono passati quarant’anni da quando l’ex first lady statunitense Betty Ford parlò pubblicamente del suo tumore al seno, sfidando il marchio d’infamia di quella malattia. Ne sono passati trenta da quando è stata fondata la Komen. Venti dall’introduzione dei nastri rosa. Eppure, nonostante le buone intenzioni, tutta questa sensibilizzazione alla fine ha reso le donne meno consapevoli dei fatti concreti: il silenzio sui limiti della mammografia, la tendenza a confondere rischio e malattia, il condizionamento delle nostre decisioni, la celebrazione delle “sopravvissute” che forse non sarebbe mai stato necessario curare. E tutto questo a spese di quelle la cui vita è più in pericolo.

Nella maggior parte dei paesi del mondo, tra cui l’Italia, il tumore alla mammella è il più frequente tra le donne. Il rischio di averlo è più elevato se altri familiari lo hanno avuto. Si ritiene che tra il 5 e il 10 per cento dei casi di tumore della mammella abbiano una base ereditaria. Ma dato che questo tumore è relativamente frequente (1 caso su 8-12 donne) è possibile che ci siano famiglie in cui l’elevato numero di tumori è dovuto ad altri fattori. u Alcune forme ereditarie di tumore alla mammella sono causate da una mutazione di due geni chiamati brca1 e brca2 . L’alterazione di questi geni sarebbe responsabile di circa la metà delle forme ereditarie di tumore alla mammella. brca1 e brca2 normalmente controllano la proliferazione cellulare.
Se sono alterati, la loro funzione di freno viene meno.

Secondo il National human genome institute statunitense, queste mutazioni riguardano tra lo 0,1 e lo 0,6 per cento del- la popolazione. u Esistono dei test genetici per individuare le alterazioni di brca1 e brca2. I test dovrebbero essere eseguiti solo in famiglie a elevato rischio genetico per tumori alla mammella e/o all’ovaio.
Tuttavia il rischio non è mai assoluto: un test positivo non indica che una donna svilupperà sicuramente il tumore. Mutazioni in entrambi i geni si associano a un rischio tra il 45 e il 65 per cento di sviluppare un tumore della mammella nel corso della vita, mentre le donne che ereditano una mutazione brca1 hanno una probabilità superiore (tra il 20 e il 40 per cento), rispetto a quelle con mutazione brca2 (tra il 10 e il 20 per cento), di ammalarsi di tumore dell’ovaio. Si stima che normalmente il rischio di sviluppare un tumore alla mammella sia del 12 per cento. u In Italia i test genetici per l’identificazione di alterazioni di brca1 e brca2 sono disponibili presso alcune istituzioni italiane (gratuitamente o pagando il ticket) e in alcuni laboratori privati.
Negli Stati Uniti costano circa tremila dollari. Il costo elevato dipende in parte dal fatto che l’azienda statunitense Myriad Genetics detiene un brevetto sui geni mutati e ha quindi il monopolio dei test.

La questione è all’esame della corte suprema statunitense. Il ministero della salute raccomanda ai servizi sanitari l’attuazione di programmi di screening che ogni due anni invitino le donne tra i 50 e i 69 anni a sottoporsi a una mammografia. I controlli di diagnosi precoce efettuati nell’ambito di questi programmi sono esenti dal ticket.
Dal 1 gennaio 2000 le donne tra i 45 e i 49 anni possono sottoporsi alla mammografia senza pagare il ticket se non hanno eseguito nei due anni precedenti lo stesso esame a carico del servizio sanitario nazionale.