È il fratello malvagio del placebo: l’ansia libera una sostanza che ci “convince” di essere fisicamente nei guai. E può arrivare al punto di farci ammalare per davvero.

La nostra salute ha un nemico nascosto, abilissimo a insinuarsi nel cervello grazie a cavalli di Troia apparentemente innocui come la parola e il ricordo, e capace di avere effetti deleteri sia a breve che a lungo termine. È invisibile per il paziente, e spesso sfugge anche all’occhio allenato dei medici.

“Tre quarti tra pazienti e persone che lavorano in ambito medico non hanno familiarità con questo effetto” spiega al Venerdì Carlo Pancaro, docente di medicina al Tufts Medical Center di Boston e all’Università di Amsterdam.

Si tratta dell’effetto nocebo. L’etimologia latina della parola – ossia ti nuocerò – lo connota come il fratello malvagio del placebo. L’effetto placebo ci fa sentire meglio quando assumiamo una pillola che non ha alcun effetto curativo.

Il nocebo, al contrario, esagera le nostre reazioni negative (dolore, ansia) anche quando non ci sono ragioni chimiche vere e proprie per stare male: può bastare il ricordo di una brutta esperienza che temiamo stia per ripetersi, oppure l’avvertimento di un medico che ci dice “questo potrebbe farti male”, o anche solo la lettura degli effetti collaterali sull’etichetta di un farmaco.

Basta poco alla mente per condizionare il corpo. In uno studio del 2010, gastroenterologi dell’Università della Sapienza hanno chiesto a 126 soggetti di assumere lattosio per studiarne gli effetti sull’intestino, ed hanno poi dato somministrato loro del semplice glucosio, privo degli effetti del lattosio.

Il risultato mostra la potenza del nocebo: il 44 per cento dei soggetti intolleranti al lattosio e il 26 per cento di coloro che non avevano alcuna intolleranza al lattosio hanno accusato sintomi gastrointestinali. Nati dal nulla.

“Per questo è importante che il medico curante, quando introduce un nuovo trattamento, sappia quante informazioni dare al paziente e come darle, anziché fornire una lista di effetti collaterali che allarmano il paziente ed innescano il nocebo” osserva Pancaro “in uno studio del 2007 dell’Università di Firenze, quando a pazienti affetti da ipertrofia prostatica che assumevano il finasteride veniva detto che “il farmaco può causare disfunzione erettile e dimininuzione della libido”, il 43 per cento di loro accusava problemi della sfera sessuale. Se invece gli effetti collaterali non erano menzionati, il fenomeno riguardava solo il 15 per cento”.

E qui si pone uno spinoso dilemma etico, perché se è giusto che il paziente sia avvertito di tutti gli effetti collaterali quando decide di sottoporsi ad una terapia, è anche vero che se il medico è del tutto trasparente (anche per potersi tutelare legalmente) c’è il rischio di alimentare l’effetto “nocebo ” e danneggiare la salute di quei pazienti che si convincono ad abbandonare le terapie per via di effetti collaterali immaginari.

E questo è un problema reale: Winfried Haeuser del dipartimento di medicina psicosomatica dell’Università di Monaco, in uno studio pubblicato quest’anno, ha rilevato che, tra i pazienti che prendono parte ai test clinici, abbandonano le cure per puro effetto “nocebo ” oltre il 25 per cento di chi segue terapie con statine, circa il 10 per cento dei pazienti in terapia per il Parkinson e l’11 per cento di chi è in cura per fibromialgia.

La cosa più impressionante è che, per il cervello, l’effetto “nocebo” è indistinguibile dal dolore reale. “Le suggestioni verbali possono produrre un’amplificazione del dolore comparabile a quella indotta dall’effettiva esperienza del dolore” sottolinea Luana Colloca, ricercatrice presso il National Institute of Health di Bethesda (Maryland).

“Studiando l’effetto nocebo tramite risonanza magnetica funzionale, si è visto che il dolore atteso e il dolore sperimentato producono gli stessi cambiamenti nel cervello: nel talamo, nell’insula, nella corteccia prefrontale, nella corteccia cingolata anteriore e in altre regioni cerebrali, suggerendo che una “rappresentazione mentale” di un evento sensoriale imminente può significativamente modellare i processi neurali che sottostanno alla formulazione dell’esperienza sensoriale vera e propria”.

E così si arriva all’unico lato positivo del “nocebo”: essere in grado di prefigurarci un dolore o un danno dopo aver colto uno stimolo – che può anche essere solo verbale, come il nostro vicino di caverna che ci avvisa di lasciare in pace la tigre dai denti a sciabola  –  sarà servito, nel corso dell’evoluzione, ad indirizzarci con più efficacia verso comportamenti prudenti.

Resta però una domanda cruciale: se il “nocebo” è soltanto una questione di mente, come può avere effetti sul corpo? “Il fatto è che quando ci prepariamo al peggio, la chimica del nostro organismo cambia a nostro svantaggio: le endorfine e la dopamina, che esercitano un’azione di controllo sulla trasmissione del dolore, vengono antagonizzati o talvolta deattivati” spiega Carlo Pancaro “E un altro ormone dei circuiti nervosi dolorifici, attivandosi, aumenta la percezione del dolore”.

A scoprire questo ormone cruciale per trasformare il pensiero in dolore fisico, la colecistochinina, è stato un italiano: Fabrizio Benedetti, docente di fisiologia all’Università di Torino.

“Il meccanismo che congiunge le aspettative negative con la liberazione di colecistochinina è l’ansia anticipatoria” chiarisce Benedetti “dire a un soggetto che il suo dolore aumenterà è ansiogeno. Se un caso estremo di effetto nocebo può essere la morte voodoo, tutti i rituali che inducono aspettative negative possono produrre conseguenze anche gravi: il meccanismo fondamentale è il forte stato di stress che viene indotto nel soggetto. L’ansia attiva il neuromodulatore colecistochinina e si ha iperalgesia”, ossia una risposta eccessiva a stimoli dolorosi insignificanti.

Benedetti ha dimostrato il ruolo chiave della colecistochinina trovando che se la si blocca somministrando un farmaco antagonista, il proglumide, l’iperalgesia svanisce di colpo.

Ma si può combattere il “nocebo” anche con le parole: “Il primo fronte sono le diagnosi negative, e il modo giusto per comunicarle. Il medico deve aver presente che il paziente che riceve una diagnosi negativa può mostrare una reazione ansiogena che lo porta ad amplificare il suo stato e i suoi sintomi” commenta Fabrizio Benedetti “il secondo fronte sono le notizie allarmistiche lanciate dai media, che spesso inducono effetti nocebo di massa, come la paura delle onde elettromagnetiche dei cellulari, di certi alimenti o di certe epidemie”. Per parafrasare Shakespeare, insomma, l’importante è che non ci sia molto dolore per nulla.

Da ‘Il Venerdì di Repubblica’ – 31 agosto 2012
Giuliano Aluffi